di Stefano Innocentini
Per gentile concessione dell’Autore, Socio di questa ASD, riprendiamo l’articolo pubblicato nel suo blog www.iltuoapprofondimento.it
La prima volta che sono salito sulla materassina (tatami, in giapponese) avrò avuto circa dieci anni.
Ricordo ancora quanto dovetti insistere con i miei genitori che proprio non ne volevano sapere di farmi praticare questo sport, all’epoca ancora semi sconosciuto (erano gli anni ’60 ) poiché avevano paura che mi potessi fare male.
Nonostante tutto riuscii a spuntarla e con mia immensa gioia iniziai la pratica di questa bellissima e nobilissima arte marziale proveniente dal Giappone.
Purtroppo la palestra (era una palestra del dopolavoro dei dipendenti del Comune di Roma), chiuse dopo un anno e solo da adolescente, qualche anno dopo, ne trovai un’altra che mi piacesse.
Si trattava della storica palestra Audace, in Via Frangipane (Roma) dove iniziai peraltro a gareggiare come agonista sotto la guida del M° Aureli.
Dopo qualche anno, una serie di vicissitudini tra le quali il lavoro, che mi portò a fare da spola tra Roma e Firenze, mi costrinsero a sospendere la pratica del Judo ma, intorno al 1983, dopo essermi sposato e andato a vivere nella zona est di Roma, mi iscrissi al Nettuno Club dove insegnava il M° Umberto Foglia.
Pur essendo ancora giovane e potendo quindi gareggiare, feci la scelta, condivisa anche dalle idee del M° Foglia, di non lasciarmi prendere da un agonismo esasperato bensì di vedere il Judo per quello che realmente è: uno sport che lancia un messaggio altamente educativo che, se colto, può migliorare il modo di vivere e di essere del praticante.
Infatti, se un insegnante prepara l’allievo solo dal punto di vista agonistico, nel tempo probabilmente avrà creato un bravo atleta ma non per questo avrà contribuito a creare una persona migliore.
Pertanto, ricominciai innanzitutto ad allenarmi moltissimo (quasi tutti i giorni) ma principalmente per il piacere di farlo, lontano da finalità esclusivamente agonistiche.
Ricominciai anche a gareggiare ma sempre dando un’importanza relativa al risultato, ovvero, per me era importante gareggiare per il piacere di farlo e consideravo la gara un momento di verifica: se vincevo un combattimento voleva dire che in palestra avevo lavorato bene ed ero migliorato, mentre se perdevo, questo stava a significare che qualcosa andava rivisto e avrei potuto fare meglio la prossima volta.
Nel frattempo erano nati i miei due figli Simone, nel 1985 e Luca, nel 1989.
Il più grande, che ogni tanto mi accompagnava in palestra per assistere agli allenamenti, rimase affascinato da questa disciplina sportiva e mi chiese di iniziarla anche lui.
Lo seguì, dopo qualche anno, anche Luca e ci ritrovammo tutti e tre sul Tatami, seppur in orari e turni diversi ma con la medesima passione.
Nel 1993 avvenne un fatto straordinario che rappresentò per me un grande onore: l’allora Presidente della FILPJ (attuale FIJLKAM) Matteo Pellicone, dopo aver preso visione del mio curriculum di Judoka, decise di conferirmi “Motu Proprio” la Cintura Nera 1° Dan di Judo “Quale riconoscimento della Sua pluriennale attività e dei meriti da Lei acquisiti nell’ambito del Judo italiano”
Questo riconoscimento, che per qualcuno avrebbe potuto rappresentare un punto di arrivo, ebbe su di me l’effetto di incoraggiamento a proseguire nell’attività judoistica.
Fu così che, trascorsi gli anni necessari per passare di Dan, sostenni l’esame per secondo Dan.
In quest’occasione però, essendo la mia palestra affiliata ad un Ente di Promozione Sportiva riconosciuto dal CONI, si trattò non del grado Federale ma del grado CSEN (fermo restando che il programma d’esame è uguale).
Nel frattempo avevo avuto il piacere di conoscere il Maestro Benemerito di Judo Alberto Di Francia e cominciai a frequentare la sua palestra (Judo Preneste –Sito Internet www.judopreneste.com).
Ogni sabato mattina suo genero, il M° Nicola Ripandelli e il M° Franco Sellari, tenevano presso il Judo Preneste dei corsi di Kata, la cui conoscenza mi era già stata necessaria per il sostenimento dell’esame presso lo CSEN.
Questi corsi erano però particolarmente professionali e decisi di frequentare il Judo Preneste per prepararmi anche all’esame Federale (sempre per il secondo Dan) e inoltre all’apposito corso di preparazione presso il Comitato Regionale Lazio FIJLKAM.
Qui, per capire meglio, bisognerebbe fare una precisazione: tutti i gradi ottenuti presso la FIJLKAM sono automaticamente riconosciuti dagli Enti di Promozione Sportiva del CONI mentre tutti i gradi degli Enti di Promozione Sportiva del CONI non sono riconosciuti automaticamente dalla Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali (FIJLKAM).
In buona sostanza, manca la reciprocità e a mio avviso bisognerebbe fare qualcosa per colmare questa lacuna. Per questo motivo mi sottoposi nuovamente all’esame per secondo Dan (questa volta Federale), che ottenni nel 2002.
Successivamente, desideroso di insegnare questa disciplina, partecipai al corso per istruttori di Judo dello CSEN (del quale ero già allenatore e arbitro regionale) e approfittai dell’occasione per sostenere anche l’esame di 3° Dan.
Nel frattempo anche i miei figli proseguivano nella pratica del Judo diventando entrambi cintura marrone.
Luca però, decise di sospendere tale disciplina fermandosi, appunto, a tale grado.
Simone, il più grande, nonostante alcuni gravi infortuni avvenuti in fase di allenamento, intese proseguire guadagnandosi in gara la cintura nera 1° Dan.
Io nel frattempo mi dilettavo nell’attività di insegnamento e creai anche un’Associazione culturale denominata CISAM (Centro Italiano per lo Studio delle Arti Marziali) di cui fui nominato Presidente e che affiliai allo CSEN.
Inoltre mi dedicai a scoprire anche un’altra Arte Marziale, l’Aikido, del quale sono cintura marrone.
La mia passione, però, era e resta il Judo e in tempi recenti, dopo aver frequentato un apposito corso Federale, sono diventato Presidente di Giuria regionale della FIJLKAM.
Questo è, in estrema sintesi, il mio curriculum sportivo.
Per quanto riguarda invece gli scacchi, anche in questo caso si tratta di una passione di vecchia data che iniziò quando avevo tredici anni ovvero nel 1972.
All’epoca, infatti, si svolse a Reykjavik, in Islanda, il campionato del mondo di scacchi passato alla storia con l’appellativo di “Incontro del secolo” tra il detentore del titolo Boris Spasskij (U.R.S.S.) e lo sfidante Bobby Fischer (U.S.A.).
L’incontro, che si disputò tra l’11 luglio 1972 e il 3 settembre 1972, fu vinto dall’americano per 12,5 a 8,5.
Eravamo in piena “guerra fredda” e l’incontro ebbe una risonanza mondiale anche perché, per la prima volta, fu trasmesso in televisione.
Ricordo ancora che io, alla fin fine piccolino, lo seguii con grandissima attenzione e passione arrivando anche ad acquistare alcuni manuali (oltre a una scacchiera, naturalmente).
Purtroppo però non riuscii a trovare un circolo scacchistico vicino casa e pertanto dovetti, per forza di cose, abbandonare l’idea.
Tra l’altro, forse non avrei avuto il tempo materiale di inserire anche questa passione nella mia routine quotidiana visto che studiavo pianoforte presso il Conservatorio di Musica Santa Cecilia di Roma dove tra l’altro superai egregiamente sia la prova di ammissione (sembra strano ma per essere ammessi a studiare uno strumento bisognava dimostrare di saperlo già ben suonare) che, dopo qualche anno, il difficile esame di solfeggio e teoria musicale.
Adesso, che ho sessant’anni e sono finalmente in pensione, sto piano piano ritrovando il piacere di dedicarmi a tanti hobby (o se vogliamo usare il plurale – cosa normalmente sconsigliata – potremmo dire hobbies).
Per quanto riguarda il Judo, dopo una vita trascorsa sul Tatami, ho fatto la scelta di sospenderlo anche per motivi di salute.
Per ciò che concerne il pianoforte, mi diletto a suonarlo quando ne ho voglia e tempo a casa visto che ho un ottimo pianoforte acustico verticale.
Ma dopo tantissimi anni, grazie anche al prezioso aiuto di internet, ho trovato vicino a casa mia un bellissimo circolo degli scacchi (Scuola Popolare di Scacchi) aderente alla Federazione scacchistica italiana (F.S.I.) dove vengono svolti corsi, tornei e ci si può mettere alla prova e conoscerci meglio giocando liberamente il martedì sera.
Finalmente, quindi, dopo circa quarantasei anni sto ritrovando il piacere di avvicinarmi a questa disciplina anche se, per ovvi motivi, sono per forza di cose un principiante.
Nonostante tutto ho partecipato con successo al corso per Istruttore Scolastico Divulgativo promosso dalla Federazione Scacchistica Italiana (aderente al C.O.N.I.).
Frequentando la Scuola Popolare di Scacchi ho avuto modo di constatare che molti scacchisti non solo hanno una formazione scolastica superiore (ovvero diplomati ma, ancor di più, laureandi o laureati) ma spesso provengono da studi di tipo scientifico (non di rado matematica e fisica) il che sembrerebbe avvalorare la tesi secondo la quale esiste un forte legame tra razionalità, calcolo e gioco degli scacchi.
Ma da poco ho scoperto che esiste anche una forte relazione tra scacchi e musica.
Tra l’altro sono numerosi i musicisti appassionati di scacchi nonché ottimi giocatori.
Si possono citare, a titolo d’esempio:
– Francois Philidor (scacchista eccelso del ‘700 ma anche musicista di corte);
– Vasily Smyslov (cantante d’opera);
– Sergei Prokofiev (abile compositore e provetto scacchista);
– Maurice Ravel (1875-1937 – musicista molto noto, tra l’altro per il ‘Bolero’ composto nel 1928);
– Robert Alexander Schumann (compositore, pianista e critico musicale tedesco). Tra l’altro, Schumann scrisse: “Nella musica è come negli scacchi. La regina (melodia) ha il massimo potere, ma il colpo decisivo dipende sempre dal re (armonia)”.
– Ennio Morricone (direttore d’orchestra e compositore di colonne sonore per film);
Ma anche nell’ambito della musica leggera molti artisti sono (o sono stati) anche dei buoni giocatori.
Anche in questo caso possiamo citare, sempre a titolo di esempio:
– Luigi Tenco;
– Fabrizio De André;
– Enrico Ruggeri;
– Max Pezzali;
– Jovanotti;
– Francesco de Gregori
Molto si è scritto sulle similitudini tra le due discipline e quindi non voglio addentrarmi e invito chiunque intenda approfondire di farlo attraverso la lettura di numerosi testi sull’argomento (molto materiale è anche reperibile su internet).
Comunque sembrerebbe che in entrambe le discipline entrino in gioco gli stessi processi cognitivi.
Poi non dimentichiamoci che tutte e due richiedono impegno, dedizione, sacrificio.
Un pianista professionista, per prepararsi ad esempio a un concerto per pianoforte e orchestra, studia mediamente nove ore al giorno alternando esercizi come scale e arpeggi, all’approfondimento della partitura e questo identico sacrificio lo ritroviamo anche negli scacchi in quanto i professionisti, per gareggiare ad alti livelli, devono sottoporsi a una rigorosa disciplina pena la perdita del titolo precedentemente conquistato.
Ad ogni buon conto, anche nello strumento (ad esempio il pianoforte) la stessa improvvisazione (sia che si parli di Blues che di Jazz), segue delle regole ben precise di armonia e quindi richiede un approfondito studio per essere messa in pratica.
Esiste tra l’altro una relazione molto stretta tra la musica e la matematica e quindi un accostamento tra quella che è razionalità e sentimento.
Ad esempio, nel suonare il pianoforte (che è uno strumento percussivo) si pigiano con le dita i tasti che a loro volta mettono in moto dei martelletti che percuotono le corde emettendo un suono.
Se noi immaginiamo di tendere una corda e mettere un ponticello esattamente alla metà, otterremo due suoni identici ma con ottave diverse (uno più grave e l’altro più acuto).
Se poi questo ponticello lo mettiamo ad esempio a 2/3 otterremmo un suono che è equivalente alla quinta della nota precedentemente suonata (se la prima nota era un Si bemolle, avremo quindi la sua quinta ovvero un Fa).
Mettendolo a ¾ avremmo un intervallo di quarta (in questo caso un Mi bemolle).
La musica si incontra con la matematica anche nella ritmica ovvero, ad esempio, una misura di 4/4 è suddivisibile in ottavi che a loro volta possono essere suddivisi in sedicesimi e questo ci fa capire la stretta relazione tra le due discipline.
Naturalmente poi nell’esecuzione intervengono altri fattori come ad esempio delle pause, dei momenti più forti e altri meno forti, ma la scansione delle misure sarà sempre e comunque quella basata su concetti matematici.
Se poi parliamo delle scale musicali (prendiamo a prestito la scala di do maggiore), la sua costruzione è suddivisa in toni e semitoni e, più precisamente, due intervalli di tono tra il Do e il Mi (Do – Re e Re- Mi) un semitono (tra il Mi e il Fa) e infine altri tre toni e un semitono.
Quindi i musicisti sanno perfettamente che una scala maggiore è composta da 2 toni e 1 semitono nonché da 3 toni e 1 semitono.
Preferisco al momento fermarmi qui sulla relazione tra scacchi, matematica e musica perché desidero ora approfondire un altro argomento che mi sta molto a cuore ovvero la relazione tra gli scacchi e il judo.
Spesso ho sentito descrivere la lotta di Judo come una partita a scacchi in movimento.
Non mi ero mai soffermato molto su questa descrizione ma da quando frequento il mio circolo di scacchi, devo dire che in effetti vi sono molte similitudini.
La cosa che immediatamente salta all’occhio è che in entrambe i casi si tratta di un combattimento che, seguendo determinate regole, porta uno dei due contendenti alla vittoria, alla sconfitta oppure al pareggio.
Negli scacchi si deve riuscire a fare prigioniero il Re tramite lo scacco matto e nel Judo si deve riuscire a sconfiggere l’avversario oppure costringerlo alla resa.
Tecnicamente il Judo può essere definito come un metodo d’educazione fisica e mentale basato su una disciplina di combattimento, d’attacco e difesa, a mani nude.
La stessa cosa però accade nel gioco degli scacchi in quanto viene simulata una battaglia tra il bianco e il nero.
Il Prof. Jigoro Kano, creatore del judo amava dire ai suoi allievi:
“Solo dopo aver tanto combattuto, così da arrivare al di là della nozione di vittoria e di sconfitta, si aprono le porte di una visione d’amore nella vita. Il combattimento di Judo è come una vaccinazione contro la violenza: la si affronta a piccole dosi, la si vince dentro se stessi e infine si acquista la capacità (o la saggezza) di riflettere nelle diverse situazioni della vita”.
Esistono poi delle similitudini che si trovano proprio nel corso dell’allenamento e nella gara.
Ad esempio nel Judo è fondamentale salutare rispettosamente il Tatami, in quanto luogo della pratica, il Maestro e, ancor di più, i compagni di allenamento oppure l’avversario in gara (questo avviene all’inizio del combattimento ma anche alla fine).
Negli scacchi c’è meno formalità ma prima di un incontro si usa stringere rispettosamente la mano dell’avversario e augurargli di fare una buona partita.
Nel Judo poi, nel corso dell’allenamento, non è solo il Maestro che insegna agli allievi ma ogni atleta con cintura di grado superiore è tenuto a correggere gli errori che nota nel compagno meno esperto.
Questa modalità di incontro la sto trovando anche nel mio Circolo e mi sta aiutando a crescere in modo non indifferente.
Sovente mi sono trovato a giocare con qualcuno più esperto (diciamo che nei circoli si trovano facilmente persone veramente preparate che giocano a scacchi da anni e hanno anche esperienza di gara) e i loro consigli sono preziosi al pari di qualsiasi lezione teorica.
Un’altra realtà che non mi aspettavo di vedere è la forte partecipazione alla vita del circolo di bambini e/o ragazzi che, iniziando da piccoli, potranno sicuramente diventare dei giocatori molto forti da adulti.
Inutile dire che questa attenzione nei confronti dei bambini e ragazzi esiste anche nelle palestre dove si pratica il Judo.
Negli scacchi poi esiste molta teoria, con lo studio approfondito delle aperture, del medio gioco e dei finali e poco viene lasciato al caso (anche se naturalmente il giocatore esperto saprà creare qualche cosa di nuovo nel corso di una partita).
Nel Judo la realtà è simile in quanto esiste uno studio approfondito delle tecniche di attacco, di quelle in combinazione, delle contro tecniche e della difesa.
L’atleta di Judo normalmente segue una sua strategia e, nel corso del combattimento, cerca di preparare il terreno per mettere in atto il suo Tokui-waza (ovvero la tecnica preferita, il suo speciale).
Naturalmente più l’atleta è esperto e maggiore sarà il bagaglio di conoscenze che lo porteranno a vincere seguendo anche il suo istinto.
Lo stesso accade negli scacchi in quanto sono ben forti i concetti di strategia e tattica.
Molto conta anche il lato psicologico che è fondamentale sia nel Judo che nel gioco degli scacchi.
Nel Judo più l’atleta è esperto e maggiore è la sua percezione della psicologia dell’avversario. Questo potrà tornargli utile nel corso del combattimento per capire non solo con quale tecnica attaccare ma anche il giusto momento e le falle nella difesa avversaria.
Niente di più simile di quello che accade quando ci si siede di fronte a una scacchiera.
Un’ultima considerazione desidero farla circa la resa.
Infatti l’obiettivo del combattimento e quello principalmente di proiettare l’avversario facendolo cadere con la schiena sul tatami ottenendo una vittoria immediata (esistono comunque anche dei punteggi intermedi) ma si può vincere anche attraverso le cosiddette tecniche di controllo.
Le tecniche di controllo consistono in una immobilizzazione al suolo o “presa” (osae komi waza), una tecnica di lussazione o “leva” sul gomito (kansetsu waza) o uno strangolamento (shime waza).
In questo caso ho notato una differenza tra le due discipline nel senso che spesso anche grandi giocatori di scacchi, quando ritengono di non poter più proseguire il gioco, lo abbandonano dichiarandosi sconfitti tramite la resa.
Nel Judo, invece, la resa è praticamente immediata quando si sta subendo una tecnica di lussazione o “leva” sul gomito (kansetsu waza) o uno strangolamento (shime waza).
Nessuno vuole che gli atleti si procurino danni e quindi chi sta subendo una leva articolare oppure uno strangolamento potrà (anzi dovrà) battere due volte la mano sul tatami (oppure anche con il piede se gli arti superiori sono bloccati) o anche o dicendo maitta, che in giapponese significa “mi arrendo”
Per quanto riguarda invece l’immobilizzazione al suolo, l’atleta ha un certo numero di secondi per cercare di liberarsi e sono frequenti i ribaltamenti di fronte proprio in questa fase del combattimento dove da immobilizzato si può diventare colui che immobilizza.
È per questo che faccio un po’ di fatica a concepire la resa negli scacchi in quanto vi sono molte opportunità per arrivare a una patta ad esempio per stallo oppure per ripetizione di mosse o anche per scacco perpetuo.
Certo, se si fronteggia un avversario esperto sarà ben difficile indurlo nell’errore ma ritengo, a mio modesto avviso, che potrebbe sempre valere la pena tentare.
Spero che queste mie riflessioni siano gradite e attendo volentieri dei commenti costruttivi per crescere sempre di più nel mondo degli scacchi.